XIX Domenica tempo ordinario (C)

“Camminare insieme nel deserto della vita”

<<Commento di don Franco Galeone>>

(francescogaleone@libero.it)

 

*  La domenica “della vigilanza”: l’ora della fine della nostra vita, il momento del ritorno di Gesù, è tutto incerto e certo insieme. Tutto può accadere prima di quanto immaginiamo, ma anche più tardi di quanto pensiamo. Vigilanza, ma non ossessione; occupati, ma non preoccupati; attivi, ma con serenità. Vivere è attendere, cioè tendere-verso qualcosa, meglio, Qualcuno. Il credente è uno che progetta il futuro costruendo il presente, perché l’unica maniera per essere fedeli all’eternità è di essere nell’attualità. Siamo nel tempo e sulla terra per guadagnarci l’eterno e il cielo. L’alternativa non è o il cielo o la terra, ma e la terra e il cielo. Il lucido pazzo di Roecken ha proclamato solo una mezza verità: “Restate fedeli alla terra!”. Occorre essere anche fedeli al cielo, perché l’uomo è anche cielo, immagine di Dio, apertura al Trascendente. La luce del cielo può illuminare anche questa nostra terra; la nostra vita può diventare meno tenebrosa; le lampade servono per attendere il Signore, certo, ma anche per non perderci nel gomitolo delle nostre complicazioni.

 

*  Per i nostri padri, la chiesa era solo una roccia! Non dava idea del viaggio ma della stabilità. E se viaggio era, si trattava comunque di un viaggio sicuro. Non praevalebunt! Oggi siamo tutti testimoni che il grande blocco si è disciolto; le sicurezze non vengono più offerte attraverso i metodi dell’addottrinamento autoritario e dell’obbedienza gregaria. E allora qual è questo principio di stabilità nel divenire? A motivo della singolarità dell’istituzione della chiesa, questo principio va individuato nella “Parola di Dio”. Appena si accende il contatto tra la coscienza del credente e la Parola di Dio, si scuotono tutti i tralicci dell’istituzione. Si scopre che l’istituzione aveva sviluppato un agglomerato di false sicurezze; si era scambiata la chiesa come l’ospizio degli uomini in cerca di sicurezza. Non degli uomini che camminano, guardando in alto e in avanti, verso una Città nuova, no, ma degli uomini attaccati al cumulo delle tradizioni.

 

* Anche il popolo ebraico, durante il suo viaggio, doveva distribuire le soste e il cammino a seconda delle indicazioni della colonna di fuoco durante la notte, e di fumo durante il giorno. Nelle lunghe soste, l’istinto sedentario prendeva il sopravvento e l’accampamento si trasformava in una città. Ma, all’improvviso, la nube si alzava e gli ebrei dovevano riprendere il loro pellegrinaggio. E’ immaginabile che molti non volevano muoversi, rimpiangevano l’immobilità, anzi, rimpiangevano l’Egitto e le sue cipolle.

 

* Anche oggi, viviamo in un momento in cui si è alzata la nube: c’è chi non vuole muoversi, e scambia l’immobilità  per fede. Può darsi che qualcuno prenda un passo troppo veloce, si stacchi dal grosso del popolo di Dio. L’impazienza mette le ali ai piedi. Dobbiamo uscire insieme dal deserto! Non dobbiamo fare pattuglie di avanguardia che si staccano dal gruppo. Ma anche l’immobilità è un segno di mancanza di amore e di solidarietà. Noi non viaggiamo per noi, ma come popolo di Dio. Nessun immobilismo o rimpianto, nessun nomadismo o randagismo, ma tutti pellegrini come il padre Abramo, come il popolo d’Israele. Noi dobbiamo oggi, con carità e fermezza, combattere l’immobilismo, perché esso è contrario alla fede, anche se si ammanta di tutti gli addobbi sacri. Ma dobbiamo anche vincere l’individualismo della fede, che non tiene conto della dimensione della comunità. E tutto questo richiede pazienza, moderazione, soste, dovute non a tatticismo ma a carità.

 

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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