Quella volta che Zeus si arrabbiò di brutto…
di Vittorio Russo
Quella volta Zeus si arrabbiò veramente di brutto. Insomma, lui voleva che la sede degli dèi restasse sul Monte Olimpo. Era sempre stata lì, da eternità immutabili e nulla doveva cambiare perché così aveva deciso. Sì, è vero, non era un luogo proprio ideale: c’erano frequenti nuvole sulle vette e una foschia invano frullata dai venti impetuosi che Eolo metteva a disposizione. Per Zeus però queste non erano ragioni valide a giustificare un trasloco. Svuotare le auree dimore dei dodici dèi di tutte le suppellettili indispensabili e inutili gli appariva una follia! Perché gli dèi possono fare a meno di tutto ma non del superfluo.
Quella mattina, marmoreo e impeccabile, Efesto, l’ingegnere più geniale della mitologia, si era presentato a Zeus, suo padre, con i suoi progetti: rotoli di pergamena, disegni, schizzi, dipinti e cartoline! Voleva mostrare al barbuto genitore il mondo incantato che aveva finito di costruire.
Zeus era appena uscito dall’alcova della novecentotrentottesima ninfa dei monti, l’Oreade del sorriso, che proprio per questo si chiamava, Meidiama.
Si capiva che qualcosa era andato storto (capita anche agli dèi più allenati…) perché Zeus, accigliato, scuoteva il testone crisoelefantino dai capelli arruffati. Era ingrugnito e ringhioso come un cane invecchiato alla catena.
«Ecco, egioco Padre, io ho costruito tutto questo», accennò Efesto «questo mare, queste alture a picco, queste grotte verdi che vedi qui e queste terre profumate di ginestre, asfodeli e rosolacci. Quest’isola qui potrebbe diventare la dimora di Afrodite. Vedi che lievi pendii e che morbide anse! Quest’altra dalle ombre colorate potresti destinarla ad Atena». E, soporifero, aggiungeva: «Febo lo sistemerei su questa collina sonora di canti mentre su quell’irto scoglio di fronte si potrebbe trovare bene Ares…»
Così indugiava indicando sulla splendida mappa le posizioni di questa e quella terra. Puntava con un dito gli anfratti verdeggianti e gli scogli sparpagliati come petali colorati sul pelo delle acque vibranti che sembravano manti di luce. Lì una baia dorata di sole, altrove corollari di isolotti germogliati dal mare e faraglioni imponenti nella scorza rugginosa delle rocce. Scorreva senza arrestarsi col dito sulla distesa marezzata da fremiti di vento.
Parlava, Efesto, parlava con parole che volevano essere convincenti e definitive. In verità , non avrebbe avuto bisogno di parole, sarebbero bastate le immagini, perché quelle davanti agli occhi del padre degli dèi avrebbero convinto anche la più cocciuta testa di mulo. Ma non Zeus quella mattina, scorbutico come non rare volte gli accadeva. E quando accadeva, urlava da far tremare la galassia e cambiare direzione agli astri nel firmamento. Non contento, squarciava il cielo con le sue folgori di fuoco. Del resto si dice ancora… “Apriti cielo!†anche se non ricordiamo che questo potere era solo di Zeus.
Quella mattina, insomma, era proprio una di quelle. Tutta colpa di Meidiama e dalle sua inconcesse grazie. Più Efesto decantava le bellezze del mare, del cielo su di esso e delle terre dove suggeriva che fosse trasferita la sede degli dèi, più montava come magma dagli abissi la collera del padre.
La furia di Zeus esplose di colpo e diventò rabbia. Schiumava e oscillava la barbaccia riccioluta con gli occhi che incendiavano l’aria. Poi la furia si tramutò in un’incontrollabile tempesta di saette e di fragori. Ne rimbombò a lungo la volta celeste e le stelle stesse con pianeti, asteroidi, comete e frattaglie firmamentarie che oscillarono sulle loro orbite. Insomma: l’ira di dio! Non contento il padre degli dèi afferrò quell’improvvido figlio e con un colpo della sua egida e una randellata dello scettro lo stese al suolo. Lo afferrò poi per un calcagno e, impietoso come solo lui sapeva essere, lo scaraventò giù dall’Olimpo.
Efesto ruzzolò inarrestabilmente per un giorno intero fin quando andò a cadere su una macchia di aculei e tra frammenti taglienti di roccia dell’isola di Lemno. Non morì perché chi nasce immortale come gli dèi greci è condannato a vivere. Ma restò sciancato, col volto deformato dalla frattura di setti, di ossa e arcate sopraccigliari. Da allora non fu più né marmoreo né impeccabile ma goffo e deforme. Diventò lo zimbello degli dèi e pare che neanche i mortali lo avessero in gran simpatia.
Eppure, quello che Efesto aveva costruito col suo ingegno non era affatto disprezzabile. Pensate, proponeva di trasferire l’Olimpo dalla sua sede uggiosa, nell’abbraccio delle acque e dei cieli più dolci del Pianeta: nel mare di Capri e Positano, fra isole incantate, profumi di fiori selvaggi e i canti struggenti delle onde.
Date uno sguardo alle foto e ditemi voi se Efesto aveva torto…
Ora sapete perché l’Olimpo si è svuotato e perché gli dèi greci sopravvivono solo nei racconti mitologici.