POESIA DEL VANGELO DI GIOVANNI LA STORIA DELL’ADULTERA NELLA LETTURA DI UN LAICO

         di  FRANCESCO  NUZZO

Chi ha scritto la storia dell’adultera, interpolata nel vangelo di Giovanni 7,53- 8,11, rivela sicura mano d’artista, avendo analizzato, con sensibilità e misura,  l’ essenza  di una vicenda, i cui protagonisti, Gesù, peccatrice, scribi e farisei, ciascuno nel  proprio ruolo, acquistano una dimensione universale e senza tempo. Immagini vive attestano il felice momento dell’autore, che riesce a imprimere nella memoria del lettore i segni di un fatto ordinario quanto si voglia, ma trasfigurato dalla intuizione lirica in un quadro di incomparabile bellezza.“Questa pagina, che è un dramma piccolo per estensione materiale, grande per intensità di affetti, sebbene per il suo carattere puramente umano e poetico incontrasse qualche difficoltà ad essere accolto nei testi ecclesiastici, ha operato nei secoli sulle anime ed opera ancor oggi, col magico potere della poesia che ammonisce senza ammonire, che insegna senza insegnare, che svela all’uomo i recessi più profondi e le fibre più delicate dell’umanità. Innumeri pittori, a cominciare dai nostri grandi del Rinascimento, le si sono ispirati; ma nessun poeta ha osato ripigliare e rielaborare le sue parole, ritoccare alcuna delle movenze dell’azione, alcun tratto dei caratteri: parole, movenze, fisionomie, che sono perfette” (CROCE).

Il brano, che non si rinviene nei più antichi documenti greci e latini, fu accolto dalla chiesa greca come canonico intorno al V secolo, mentre il suo ingresso nelle traduzioni latine si verificò prima di Gerolamo: il recepimento nel canone dei vangeli accettati non avvenne con immediatezza, perché l’avvenimento aveva qualcosa di scioccante per il cristianesimo delle origini. L’incontro  con l’adultera e l’attitudine indulgente del Cristo sembravano idonei a compromettere il suo prestigio di fronte ai non credenti, giudei e pagani, e agli stessi fratelli; soprattutto la disciplina ecclesiastica mal si adattava a tale esempio (LOISY). Nella chiesa primitiva, ispirata a una rigida disciplina penitenziale, sarebbe stato difficile comprendere la naturalezza con la quale Gesù perdonò la peccatrice, pur di fronte a un insegnamento che supera per altezza e intensità qualsiasi altra soluzione; quando la pratica penitenziale divenne più liberale, non vi furono più ostacoli a inserire l’episodio nel vangelo.

Prima di esporre  il contenuto del racconto, occorre dire che la matrice giovannea è comunemente negata. Il testo greco della storia presenta una quantità di lezioni varianti – da collegare alla circostanza che esso non fu dapprima pienamente accettato -, ma lo scritto non rispecchia né il vocabolario né la grammatica di Giovanni; lo stile è quello dei sinottici, in particolare di Luca, sicché non si rivela azzardata l’ipotesi dell’originaria appartenenza a quel vangelo. Alcune testimonianze, infatti, collocano la storia dopo  Lc 21, 38, in una posizione, cioè, di gran lunga più appropriata rispetto a quella  attuale, dove la vicenda dell’adultera  interrompe la sequenza del discorso alla festa delle capanne (BROWN).

Andiamo finalmente a leggere il racconto nella elegante e classica traduzione di Giovanni Diodati:

 E in sul far del giorno, venne di nuovo nel tempio, e tutto il popolo venne a lui; ed egli, postosi a sedere, gli ammaestrava.

Allora i farisei e gli scribi gli menarono innanzi una donna, ch’era stata colta in adulterio; e, fattala stare in piè ivi in mezzo, dissero a Gesù: – Maestro, questa donna è  stata trovata in sul fatto, commettendo adulterio.

Or Mosé ci ha comandato nella legge, che cotali si lapidino; tu, adunque, che ne dici? –

Or diceano questo, tentandolo, per poterlo accusare. Ma Gesù, chinatosi in giù, scriveva col dito in terra.

E, come essi continuavano di domandarlo, egli, rizzatosi disse loro: – Colui di voi ch’è senza peccato, getti il primo la pietra contro a lei. –

E, chinatosi di nuovo in giù, scriveva in terra.

Ed essi, udito ciò, e convinti dalla coscienza, ad uno ad uno se ne uscirono fuori, cominciando dai più vecchi infino agli ultimi; e Gesù fu lasciato solo con la donna, che era ivi in mezzo.

E Gesù, rizzatosi e non veggendo alcuno, se non la donna, le disse: – Donna, ove son que’ tuoi accusatori? Niuno t’ha condannato? –

Ed ella disse: – Niuno, Signore. – E Gesù le disse: – Io ancora non ti condanno; vattene, e da ora innanzi non peccare più.

Non c’è nulla di superfluo in questa pagina, autentica “perla sperduta della tradizione antica” (HEITMULLER), che, inizialmente indipendente, ha trovato posto, come s’è anticipato, nel quarto Vangelo e in alcuni manoscritti di Luca: la qualità e la bellezza la rendono degna di ottenere l’una o l’altra collocazione, poiché rivela la concisione espressiva della misericordia di Gesù nelle delicate forme dei registri lucani e, in pari tempo, rappresenta Gesù quale giudice sereno di fronte alla feroce attesa dei provocatori, con una maestà che  potremmo aspettarci da Giovanni (BROWN).

Isoliamo con un atto di pensiero i vari momenti, partendo da un evento indispensabile, ma non reso esplicito nella descrizione: la donna è stata certamente scoperta  in flagrante adulterio da parte di almeno due testimoni, escluso il marito, giacché la testimonianza di una sola persona non sarebbe bastata per condannare l’autore di  un delitto o una qualsiasi colpa. Il chiassoso sopraggiungere del corteo di scribi e farisei induce a  ipotizzare che gli elementi a carico dell’adultera avessero una solida consistenza, come appare, più che dal composto silenzio  dell’accusata, dalla sicurezza  degli accusatori, che ricordano la pena da infliggere alla  colpevole. Ecco all’opera gli spietati “osservanti”, i quali irrompono nel tempio, dove la moltitudine ascoltava la parola di Cristo, e nel mezzo pongono la donna arrestata che ha ceduto alla passione e violato la fede coniugale. L’esposizione al pubblico ludibrio è una superflua umiliazione per quell’infelice, perché attuata in luogo deputato alla preghiera e all’insegnamento, ma quei fanatici, accecati  dalla duplice frenesia di mettere in imbarazzo colui che il popolo ritiene un rabbi e di compiere, in ogni caso, un linciaggio autorizzato dalla legge, non arretrano davanti a ostacoli di ordine morale. Nella memoria rimane fissa l’immagine di quella sventurata, che “dall’ebbrezza a cui si era abbandonata si vede a un tratto balzata alla incombente minaccia e all’attesa di un atroce castigo, accerchiata dai suoi, dalla gente del suo popolo, che le si è posta contro, accusatrice e sentenziatrice di giustizia ed esecutrice e carnefice. Sta come trasognata, in preda alla vergogna e al terrore senza che le appaia scampo, forse già rassegnata alla sorte ineluttabile; e tutto questo, che noi ben sentiamo e vediamo, non si esprime altrimenti in lei che col non parlare, col non difendersi né implorare e neppure lamentarsi; sopraffatta dalla forza che l’ha in pugno e potrà far di lei quel che vorrà” (CROCE).

Poi l’insidiosa domanda a Gesù, rivestita di ingannevole ossequio, sulla sorte della donna: i nemici  legalistici lo chiamano “maestro”, e cercano di tendergli la trappola con un problema di difficile conclusione, una tecnica già sperimentata quando sollecitarono la pronuncia sull’obbligo giuridico di pagare le tasse all’imperatore romano (Mt  22,15-22) o sulla possibilità di divorziare dalla propria moglie (Mc 10, 2-9). La prescrizione della torà non ammette dubbi – la colpa dovrà essere punita,comunque, con la morte -,  ma il vero obiettivo di scribi e farisei è di costringere il Cristo a rinnegare lo spirito di  misericordia, che costituisce uno dei motivi costanti del suo insegnamento, oppure a disattendere l’autorità di Mosé e quindi di Dio, contraddicendo al dettato della legge. Gesù comprende la meschina intenzione di quegli uomini, che vogliono soltanto ottenere un trionfo dottrinale sopra di Lui, dal cui sentimento e  pensiero sono lontani, non partecipi della luce di verità e di bene che Egli diffonde. Per ottenere la vittoria, impiegano come strumento materiale a uso dimostrativo una creatura umana, che è resa sacra dall’attesa del supplizio e della morte: su di lei intendono svolgere distinzioni, sillogismi, opinioni dottorali, essendo insensibili allo strazio della donna, che essi non risentono e, comunque, non rileva di fronte all’interesse di fazione e alla disputa di scuola.  Il Maestro evita di fornire una risposta diretta, si china e comincia a “scrivere” con il dito in terra. Poiché questo è l’unico brano dei vangeli in cui si dice che il figlio di Maria abbia scritto qualcosa,  sono state avanzate diverse supposizioni per spiegare il gesto, ma è verosimile che Gesù si limitasse a tracciare delle semplici linee  mentre pensava, o volesse mostrare imperturbabilità, o contenere i suoi sentimenti di disgusto e di disprezzo per il violento zelo mostrato dagli accusatori. Non può escludersi che i segni pigramente tracciati sul terreno possano  avere una precisa finalità simbolistica, nel senso che Gesù “ rimanda i suoi interlocutori, che condannano la donna con tutta la durezza della legge, al giudizio di Dio, di fronte al quale gli uomini sono peccatori: Dio dovrebbe scrivere nella polvere i nomi di tutti loro. E’ una dichiarazione della loro nullità (come suggerisce anche un testo rabbinico: Shah 12, 5), una condanna dei colpevoli che sanno di esserlo, come dice anche la Scrittura in  Dn 5, 24; in ogni caso è un’azione significativa che gli uomini che avessero avuto il senso dei segni profetici, potevano comprendere” (SCHNACKENBURG).

Gli interroganti, sicuri come sono del fatto loro, non desistono, accecati dall’urgenza di rinvenire nel comportamento del Galileo elementi per denunciarlo; sanno di non avere motivi validi e, con petulanza iterativa, vogliono piegare la logica e la dottrina all’assunto da loro prospettato. Gesù allora si solleva e dice: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo una pietra contro di lei”; rifiuta, cioè, di trattare il caso come un problema esclusivamente legale e lo trasferisce sul livello pratico. Chinatosi nuovamente, riprende a “scrivere” in terra, senza nemmeno guardare i nemici, avendo detto, in modo unico e indimenticabile, quanto è necessario per chiarire il suo atteggiamento. Nella tradizione sinottica ci sono molte parole di Gesù concise, icastiche, precise, che scoccano come una freccia e vanno diritte al bersaglio, risolvendo una questione o una situazione: magistrali formulazioni, nelle quali parla lo Spirito di Gesù (SCHNACKENBURG); pure in questo caso il fulminante enunciato, che vuol costringere tali uomini baldanzosi e protervi a ripiegare su sé stessi, e a guardare nel fondo del proprio cuore, a ricordare e a vergognarsi, raggiunge lo scopo, e produce effetti devastanti. Nessuno  ha il coraggio di replicare. Udite le parole di Gesù, sono sopraffatti dalla vergogna, e hanno un labile  sussulto della coscienza;  un grave sentimento – di quelli che è impossibile distrarre o discacciare  – occupa l’animo loro, e vi pesa sopra, e genera un turbinio di confusi pensieri,  privi di coerente lucidità, che determina la scelta di andar via uno dopo l’altro, a cominciare dai più anziani,  maggiormente carichi di esperienza e di peccati. Anche il popolo, muto spettatore, si allontana. Sulla scena rimane la peccatrice di fronte a Colui che è senza peccato, in un’atmosfera di sospensione intensa: questo momento è scolpito plasticamente dalla formula agostiniana:  sono rimasti in due, la misera e la misericordia. Il silenzio si protrae, e l’aspettazione, quasi per incanto, sembra proiettarsi all’infinito. Poi, Gesù alza la testa, vede sola la donna,  e allora, come se tornasse da un’assenza, le rivolge la parola per un dialogo rapido ed essenziale: ella risponde con semplicità timorosa, ancora in preda allo sbalordimento per la tempesta che l’ha investita. Stupita dall’imprevisto e istantaneo rivolgimento, che ha sentito nella confusione della coscienza, l’adultera non prorompe in nessun atto di gioia e di gratitudine,  aspettando che la sua sorte sia definita: Gesù non la condanna, ossia non prende a rimproverarla, ma guarda alla continuazione di quella vita e, col dirle di non peccare, esprime un messaggio che oltrepassa, in altezza, qualsiasi precetto legale.

Se operiamo un confronto tra l’adultera del vangelo di Giovanni e la peccatrice del vangelo di Luca (7, 36-50),che piange per i suoi peccati e si prostra ai piedi di Gesù, cospargendoli di profumi, ci avvediamo che la seconda  viene perdonata a causa del suo pentimento, è presa sotto la protezione del Nazareno e mandata via in pace, mentre la prima riceve il perdono di Dio senza condizioni. La differenza, ritenuta di grande spessore sotto l’aspetto teologico (BECKER), si stempera nondimeno, poiché il Cristo, nell’un caso e nell’altro, ribadisce una peculiarità tipica della sua missione, di rivolgersi, cioè, a quelli che conoscono e ammettono la loro condizione negativa, e quindi sono disposti ad accogliere la salvezza (SCHNACKENBURG). E non v’è dubbio che l’adultera, dopo la turbinosa esperienza sofferta nella carne e nell’anima, sia, ormai, preparata a recepire, nella integralità, il  verbo del “Signore”, come ella stessa lo ha apostrofato, in una forma che esprime timore reverenziale, totale  dedizione e volontà di riscatto.

Gesù nel  frammento giovanneo non intese  formulare una teoria etica o giuridica, né offrire concetti dottrinali: il risultato avrebbe offerto ai suoi nemici argomenti insuperabili per sostenere che la legge, nella sua essenza regolatrice, va rispettata in sé, quale fondamento di ogni umana convivenza; men che mai volle dire che ogni magistrato, chiamato a giudicare gli altri, deve essere senza colpe, giacché un principio del  genere infirmerebbe il valore istituzionale dell’ufficio del giudice. Tutta la vicenda, il cui ampio finale, a torto, è stato stimato “totalmente novellistico e secondario” (BULTMANN), va esaminata da un diversa prospettiva. Il Maestro si trova di fronte a una consorteria di fanatici, i quali si sono arrogati la funzione di applicare rigidamente la norma, e dunque ha tutto il diritto di pretendere che la loro causa sia legittima e  i motivi del loro agire appaiano ispirati all’onestà, sapendo per certo che quei ferventi zelatori della legge non hanno a cuore la sua osservanza, poiché la situazione della donna non è in discussione, e neppure il fatto che ella sia o no pentita. Comprende che una creatura umana, a prescindere dall’illecito commesso, viene usata come oggetto per tendere a Lui stesso un tranello, e che i suoi faziosi avversari palesano un’insensibilità all’altrui dolore pari alla loro cecità. Ove il marito della donna avesse, poi, tramato per coglierla sul fatto, in presenza di testimoni, invece di riconquistare il suo amore (DERRET), il disprezzo del Cristo sarebbe giustificato ancora di più. L’indegnità dei moventi dei giudici, del marito e dei testimoni sono, dunque, dissonanti dalla ratio  della legge di Gesù, fondata su una gerarchia di valori diversa da quella che gli scribi hanno stabilita, trascurando il principale (giustizia, misericordia, buona fede), per salvare l’accessorio.

Insomma, nella pagina evangelica non si enuclea una regola teorica, più o meno discutibile, sul valore della norma: “ vi si avverte qualcos’altro che non solo si sottrae alla critica, ma è altrettanto importante quanto l’osservanza della legge: un processo interiore, un modo di sentire, un approfondimento della coscienza morale; si fa per essa più viva e più presente la colpevolezza e impurità che ogni uomo, anche nei più puri e volenterosi di bene, del rimordimento che ognuno ha motivo di provare di sé, del pericolo che ognuno vede di continuo a sé vicino. Tanti secoli dopo, affiorò quella coscienza allora avvivata nel motto tra sarcastico e disperato dell’eroe shakespeariano, quando diceva: ‘Io sono mediocremente onesto; pure mi potrei accusare di tali cose che sarebbe meglio che mia madre non mi avesse mai partorito!’. Con siffatti atteggiamenti e riatteggiamenti dell’animo non si elaborano teorie, ma si crea la vita stessa, la nuova vita cristiana, severa e pietosa, umile ed alta, ricca di esperienze sconosciute, o quasi sconosciute, all’antica moralità, e che non si è mai più spenta nei secoli ed è giunta fino a noi e forma parte della nostra coscienza attuale” (CROCE).                                      

[Lo scritto, che oggi è pubblicato in forma ridotta e senza le note a corredo, comparve per la prima volta  su il mulo-Rivista culturale, n. 7(Settembre 2002), pp. 35-46. All’interno del testo, sono indicati gli autori di alcuni di alcuni passaggi essenziali, per  motivi di correttezza e precisione].

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *