LETTERA A UN AMICO
di Vittorio Russo Carissimo, io, qui, nella terra del vuoto dove vivo, durante questi tempi malinconici della pandemia, ho imparato a leggere meglio la scrittura della natura. Ho scoperto i leprotti della pineta non più timorosi degli umani e i timidi ricci dagli occhi come piccole more, neri d’intelligenza segreta. Batuffoli neri sono le talpe che, senza fremiti, mettono il naso cieco fuori dal bordo sfatto delle tane per godersi la luce cui non sono abituate. E perfino qualche topo selvatico schizza fuori dal mimetismo degli gli aghi secchi dei pini. Come è ricca, vestita a festa, la pineta in questi giorni! È una fata verde nel ricamo dei suoni delle sue creature. Prima le nascondeva nelle siepi spinose degli olivastri per proteggerle dall’artiglio rapace degli umani. Ho sentito in queste settimane di silenzio parlare i pini con la voce della notte e della brezza del Tirreno; ho sentito il profumo sconosciuto della terra non calpestata e delle foglie secche accarezzate dal silenzioso vento dell’alba. Quante cose ho imparato, che se fossi malato di poesia potrei scrivere una Gerusalemme Liberata di versi canori! È esplosa la sagra dei canti solo perché siamo noi ora, noi, gli umani, ad essere chiusi nelle nostre tane. Chiusi come talpe occhiute, timorosi d’invisibile animaletti grandi meno di qualche micron che ci attraversano le carni e ci trafiggono con pungiglioni di misteriosi veleni. Fuori tutto canta. A un passo da noi. La Pineta è tutto un rimescolio di fruscii, un rimbalzare di suoni timidi, di piccoli inni cantati alla libertà dell’aria. È la voce di scriccioli, pettirossi, colombacci, tordi, tortore. Un orchestra di armonie giudiziose e di esibizioni canore anche senza un maestro a dirigerla. Una bellezza commovente. È bastata l’assenza degli umani a compiere il miracolo di questo spettacolare e irripetibile capolavoro. Mi sono fatto amico un passero che viene a cantare all’alba sul mio davanzale. Talvolta solo, talvolta preceduto dal trillo di una passerotta rotonda come un uovo. Due splendidi cantori. Lui, può chiamarsi Orfeo, meritatamente, lei non so. Per ora la chiamo solo Euridice. Saltellano indocili. Forse questo è il loro modo di sorridere. Ora siamo in procinto di “riveder le stelleâ€. Tutto purtroppo ridiventerà triste e disumano come prima. Inevitabilmente. Siamo troppo assuefatti al nerume delle abitudini per cambiare. Eppure, lo scossone del coronavirus avrebbe potuto fare da straordinario pretesto per una rivoluzione di costumi, abitudini, modi, comportamenti.  Di positivo ho pure scoperto che la docile – in fondo – pandemia diventa pretesto per ritrovarsi più a lungo con gli amici ai quali normalmente riservi un saluto fugace. Bello no, anche senza contatto visivo e tattile? Ritornare più umani tutti, immaginandoci liberi, senza l’urgenza del tempo della normalità affannosa e dei rapporti affettivi centellinati dagli orologi. Liberi tutti: seduti in astratti circoli di simposio ad ascoltare le favole della vita come un tempo gli alunni del sole di Marotta. |