LA SHOAH UN EVENTO DA NON DIMENTICARE!

di Raffaele CARDILLO

shoah

La celebre poesia “Se questi è un uomo” fa da proemio al romanzo omonimo di Primo Levi, ed è ispirata alla preghiera Shemà Israel che in ebraico vuol dire, “ascolta”: un invito a comprendere ma, soprattutto, a conoscere quanto di tremendo è accaduto nei lager nazisti, con l’auspicio che il ricordo non sia appannato dalla patina del tempo, perché quanto è avvenuto non abbia più a verificarsi.

Nell’ultima strofa il poeta lancia un anatema verso chi privilegia idee razziste augurando rovine e sventure.

Bisogna far sì che le coscienze siano sempre vigili e pronte a soffocare sul nascere ogni rigurgito d’intolleranza verso categorie considerate di disturbo per i deliri di potenza.

Il 27 gennaio di ogni anno, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, è stata riconosciuta, dallo Stato Italiano, come “Giorno della Memoria” a perenne ricordo del genocidio dei sei milioni di ebrei, massacrati nei campi di concentramento del terzo Reich.

La poesia di cui sopra traccia con rara efficacia il dramma degli internati, i campi di sterminio, la consapevolezza di essere privati di una qualsiasi identità: un’entità astratta codificata con dei numeri, dei senz’anima cui è stato riservato a mala pena il diritto ad avere un corpo, da immolare, successivamente, sull’altare di un’ideologia strampalata che privilegia la razza ariana come etnia superiore, considerando gli intrusi esseri inferiori, perturbatori e inquinanti, destinati a essere eliminati.

Ricorrere a eufemismi come “la soluzione finale del problema ebraico” per mascherare il più terribile degli eccidi nella storia dell’Umanità, rispecchia una volgare pianificazione dello sterminio degli ebrei puntigliosamente attuata con determinazione, non lasciando spazio a sentimentalismi di sorta: la demolizione programmata nei minimi dettagli di un “uomo” cui è stato tolto l’abito, le scarpe, i capelli e perfino i sogni che, peraltro, dovevano essere di breve durata, con il cruccio che il momento di coscienza che accompagnava il risveglio, generava sofferenze ancora più acute.

Arbeit Macht Frei che tradotto dal tedesco significa: il lavoro rende liberi – era il motto che era posto all’ingresso di numerosi campi d’internamento nazisti, un modo cinico e beffardo al limite del macabro, per camuffare le reali condizioni in cui versavano i prigionieri, sottoposti a ogni forma di sevizie, di privazioni che portavano inevitabilmente alla morte.

Nello scorrere del libro si ha l’impressione di assistere alla proiezione di un film, le immagini crude si sovrappongono a didascalie che grondano sangue, data l’efferatezza e la mostruosità dei protagonisti sulle povere vittime, un’analisi lucida sugli spietati meccanismi della violenza, vissuta in prima persona dallo scrittore, che è tratteggiata con rara maestria.

L’eleganza espositiva del romanzo invischia il lettore in una ragnatela sottile, che lo rende partecipe dell’orrenda tragedia qual, è l’Olocausto, investendolo del ruolo di messaggero, inteso come propalatore di una pagina oscura della storia umana e che abbia come riflesso uno sfavillìo di luci volto ad azzerare possibili brutture partorite da menti deviate.

Il monito è di non abbassare mai la guardia, che si abbia la cognizione che quanto è accaduto possa, almeno allo stato potenziale, riavverarsi!

Osservando tali precettistiche e spegnendo sempre sul nascere possibili focolai d’insofferenza verso le minoranze, si ha la certezza che grandi fuochi non abbiano più a realizzarsi, nell’interesse superiore della sopravvivenza della democrazia.

 

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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