Il Lago d’Averno, un dramma geologico
di Vittorio Russo
Immerso nella culla di un cratere, fra gli oltre quaranta dell’area flegrea, l’Averno è un soffio di leggenda dalla notte di tempi geologici. Ne rende testimonianza uno spicchio di natura incantata fra ginestre, lecci, sommacchi, salici bianchi, pini marittimi, cannucce e salicornie. È un angolo fra i più pittoreschi e ammaliatori della Terra, un luogo trasognato e tenero in un’area geografica che non trova riposo da millenni. Essa insiste nella regione flegrea, poco a ponente di Napoli.
Con le sue solfatare, le fumarole, le mofete e le eruzioni di fango bollente è una terra che arde della rabbia delle più oscure divinità degli inferi. Orco, Dite, Ade, Erebo, Tartaro, Eliso… Quanti nomi avevano gli antichi per designare l’Oltretomba e i suoi dèi. Tutti mugghiano sotto i piedi, raspano nel sottosuolo, stridono, sbuffano rabbia di zolfo e di vapori velenosi. Perché sono incapaci di liberarsi dai ceppi che li incatenano alle radici stesse dell’immenso, primordiale vulcano noto come il Flegreo, l’Ardente.
Il Flegreo è il più grande vulcano della Terra e potenzialmente il più pericoloso, esplose in miliardi di frammenti circa 40 mila anni fa. Alla sua eccezionale violenza alcuni studiosi hanno ritenuto di poter attribuire l’estinzione della specie umana del Neanderthal. L’Averno è solo uno degli infiniti crateri nati da quell’esplosione che le acque del prossimo golfo di Pozzuoli hanno completamente sommerso.
Oggi è uno specchio di luminosità blu-cobalto con pieghe tenere come il manto di una Vergine di Simone Martini. Appare sonnolento sotto il sole che lo incendia di luce e immerso in un’atmosfera lirica che racconta eventi di storia e di miti remoti. Non è però un passato immaginabile. E’ di fatto così lungo nel tempo che il suo futuro è ancora un passato sterminato. In dimensioni come queste la storia piega la fronte e si inchina all’autorevolezza del mito. Perché la storia è un brandello di tempo cui solo gli eventi danno senso. Il mito, invece, è un solo e unico evento interminato e indomesticato, che si affaccia agli occhi della fantasia nella sua unitarietà spazio-temporale e non finisce da nessuna parte.
I Greci di Cuma chiamarono questo specchio d’acqua Aorno, che vuol dire Senza uccelli. Dalle acque del lago, infatti, si sollevavano tali esalazioni venefiche di gas vulcanici che nessun uccello poteva volare su di esse senza restarne stecchito. Ecco, questa è l’origine etimologica di Averno. Ma di denominazioni del genere ne ho trovato nei luoghi più sperduti della Terra. In Asia, per esempio, fin dove giunsero le falangi di Alessandro Magno e perfino in India. Col nome di Avarana (corruzione di Aorno) si indicavano cittadelle imprendibili accoccolate su alture erme e impervie che nemmeno gli uccelli osavano raggiungere. Ne ho visti diversi di questi Avarana o di ciò che di essi ancora sopravvive in località sperdute ai confini tra Afghanistan e Uzbekistan, in Tagikistan, in India…
Nei pressi del Lago d’Averno Virgilio, e Omero prima di lui, immaginarono che si aprisse la porta degli Inferi. Era qui il vestibolo dell’Ade, la prima bocca dell’Orco, come gli Inferi erano pure chiamati. Averno diventò sinonimo di lutto e di affanni perché, ricorda Virgilio nell’Eneide, “qui hanno il loro giaciglio il Lutto e gli Affanni vendicatori e vi abitano le pallide Malattie, la triste Vecchiaia, la Paura e la Fame cattiva consigliera, la turpe Miseria, fantasmi terribili a vedersi, la Morte e il Dolore; quindi il Sonno, fratello della Morte…”
Singolare poi che da uno dei nomi dell’Oltretomba di cui l’Averno schiude le porte, derivi quello di una deliziosa mela campana. Si chiama Annurca, incoronata regina delle mele, la cui coltivazione risale agli Osci. Da Plinio il Vecchio, il noto naturalista romano morto durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., prese il nome di Mala Orcula, Mela dell’Orco, perché nasceva spontanea nelle prossimità della sede degli Inferi che i Romani chiamavano, appunto, Orco.
Si sa, i frutti migliori sono quelle che nascono nei luoghi proibiti.