GIOCO AZZARDO, “PERDO, MA NON SMETTO”
 Ecco il perché la dipendenza dall’azzardo: all’origine la scarsa capacità di valutare il rischio. Cervello sotto accusa
L’università di Kyoto ha svelato il meccanismo di cosa ci sia dietro questa abitudine così dannosa. Secondo lo studio la dipendenza dell’azzardo è legata a un disturbo mentale caratterizzato da un’eccessiva assunzione di rischi nonostante i risultati negativi: si continua a perdere, ma si continua anche a giocare. La ricerca, ha coinvolto 50 volontari: 21 con disturbo da gioco d’azzardo e 29 considerati sani, utilizzando la risonanza magnetica funzionale. “Nei primi abbiamo osservato un’attività diminuita nella corteccia prefrontale dorsolaterale, regione coinvolta nella flessibilità cognitiva, evidenzia Hidehiko Takahashi, autore principale dello studio, ciò indica che questi soggetti non hanno la capacità di adattare il loro comportamento al livello di pericolo della situazione”. Se le persone “sane†prendono decisioni valutando la probabilità di successo in base al livello di rischio tollerabile, chi ha una dipendenza come il gioco d’azzardo è incline invece verso un’azione inutilmente imprudente. Già in precedenza erano state dimostrate alterazioni in alcune aree del cervello relative al rischio e alla ricompensa. Il gioco d’azzardo, è oramai considerato una patologia vera e propria, che verrà curata presso ogni Asl del territorio. Il nome scientifico della malattia è ludopatia, appunto “dipendenza da gioco d’azzardoâ€, e il numero delle persone che ne soffrono è sempre in aumento, anche nel nostro Paese. Per Giovanni D’Agata presidente dello “Sportello dei Dirittiâ€, è necessario informare le famiglie: i genitori considerano raramente, o mai, che i giochi di denaro rappresentano un comportamento a rischio. Sono moltissimi coloro che diventano “dipendenti dal gioco†e che per questo mettono in discussione le loro vite, i loro affetti e il loro futuro, coinvolgendo le famiglie in un vero baratro. La situazione rappresenta una tale emergenza tanto da mettere in allerta anche le più alte cariche dello Stato. La ricerca giapponese è stata pubblicata su Translational Psychiatry.