DIVENTARE BANCHIERI DI DIO! (MT 25,14)

19 novembre 2017  *  XXXIII Domenica T.O. (A)

Diventare banchieri di Dio!  (Mt 25,14)

Riflessioni pluri-tematiche sul Vangelo della Domenica

a cura di Franco Galeone (Gruppo biblico ebraico-cristiano)

ה ורשים הקדושים                                     

Banchieri di Dio

  1. La parabola letta domenica scorsa insisteva sulla vigilanza dinamica. Questa domenica, il Vangelo ci propone un’altra parabola: non è degno del Signore un credente, che, per paura di compromettersi, si aliena dalle realtà di questo mondo. Un credente deve fruttificare se non vuole essere condannato. L’insegnamento di Gesù viene presentato in termini economici. Vegliare significa compiere i compiti che Dio ci ha assegnati. Al tempo dell’evangelista Matteo, alcuni credevano imminente il ritorno del Signore, e quindi erano oziosi e disimpegnati; oggi il rischio è opposto: alcuni identificano il Regno di Dio con la costruzione materiale del mondo, per cui il Regno di Dio o è rimandato ad un futuro imprecisato o è omologato a questo mondo.

 

  1. Questa parabola si interpreta male quando pensiamo che ognuno dovrà rispondere dei doni (talenti) che ha ricevuto in questa vita. Tale interpretazione non rientrava nella mentalità di Gesù, che ha sempre presentato Dio come Padre di bontà, di accoglienza, di comprensione e di misericordia senza limiti. Un’immagine sbagliata, errata di Dio, può rovinare per sempre l’esistenza del credente. Per questo è bene conoscere il vero volto di Dio, come Gesù lo ha rivelato.

 

  1. A uno Dio diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le sue capacità: il talento corrispondeva a 36 chili d’oro. Una somma ingente! Occorrevano circa venti anni di salario per un talento. Anche chi ne ha ricevuto uno solo, possiede un capitale! Ebbene, Gesù dice che Colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così fece anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Invece il terzo ha un atteggiamento strano. Colui che aveva ricevuto un solo talento – che non è poco, sono sempre 36 chili d’oro – andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Perché questo? Perché lui è rimasto servo. Mentre gli altri con questa cifra si sentono già signori e padroni dei propri beni, per lui il talento è il denaro del suo padrone, lui è rimasto servo; non crede alla generosità del padrone e non crede neanche a se stesso come destinatario del dono; lo va a seppellire perché, secondo il diritto rabbinico, quando si seppelliva un tesoro o del denaro in terra, in caso di furto non si era poi tenuti a risarcirlo. Gesù vuole trasformare i suoi discepoli da servi di Dio a figli del Padre, signori come lui.

 

  1. Chi ha scritto che il cristianesimo è oppio o rassegnazione o alienazione, mente sapendo di mentire, e questa parabola lo dimostra. Il mondo è concepito come un immenso mercato globale, e la vita come un affare, un rischio, una perdita anche. Questa parabola è stata compresa fin troppo bene dalla civiltà affaristica e consumistica dell’Occidente. Aveva ragione K. Marx quando scrisse: Accumulate, accumulate: questo raccomandano tutta la legge e i profeti. Il denaro è diventato un dio: In God we trust si legge sul dollaro. M. Weber ha addirittura teorizzato che il capitalismo deriva proprio dal Vangelo e dalla morale cristiana.

 

  1. Gesù invita all’operosità; condanna l’oziosità, la paura di rischiare. La fede, come la vita, va messa in circolazione, magari giocata e anche persa. Il servo malvagio avrebbe dovuto almeno spendere quel suo unico talento, dando una bella festa, un ricco banchetto ai poveri nel nome e in onore del suo padrone. Lui, un duro, ne sarebbe rimasto contento, vedendosi un giorno festeggiato e ringraziato da tante gente, forse prima a lui ostile. E avrebbe elogiato quel servo con un solo talento, forse più degli altri due. Sì, perché la quantità dei talenti non costituisce di per sé una sicurezza; il dono è fatto per fruttificare. Non osare può sembrare prudenza e invece è prova di pigrizia.

 

  1. Chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. Per tutti la vita è dono; il talento non viene meritato da nessuno, ma viene ricevuto da tutti. E’ un dono, diverso per quantità e qualità, ma è sempre dono, gratuità. A volte si sente qualcuno, arrivato a posti di prestigio, dire con un certo orgoglio: Mi sono fatto da me, con queste mie mani! Può essere vero in campo sociale (con qualche dubbio!), ma nella vita cristiana, tutto è grazia. Il padrone vuole solo che i talenti siano messi in movimento, a costo di perderli! Dio non è geloso dell’uomo! Nella Bibbia leggiamo l’ordine di Dio agli uomini: Dominate la terra. Gli dèi greci dell’Olimpo erano gelosi dell’uomo, e incatenarono Prometeo per avere donato agli uomini il fuoco rubato agli dèi. Il Dio biblico ha fiducia nell’uomo, lo chiama ad essere suo collaboratore e luogotenente nel creato; gli affida le potenzialità della natura; gli consegna doni incompiuti che vanno trafficati e così compiuti. Vigilanza quindi, nessun disimpegno. Giustamente Dante condannò quei vigliacchi che condussero una vita scialba, in una sorte di morte anticipata: Visser senza infamia e senza lode … Sciagurati che mai fur vivi (Inferno, canto III). Parabola, in conclusione semplice e rigorosa, che dà un colpo di frusta alla nostra ostinata mediocrità. E’ la parabola della operosità cristiana; è l’apologo della vita attiva, non nel senso del gretto affarismo, ma dell’umanesimo globale. I doni di Dio sono diversi, ma identico dev’essere l’impegno. Un esempio? Un tale era incapace di pregare con parole belle e perfette; era un semplice saltimbanco: ebbene, dopo avere letto questo Vangelo, comprese che poteva e doveva onorare Dio come sapeva, cioè con salti e piroette.

 

  1. La religione inculca la paura di Dio per dominare le persone. Ma Gesù viene per liberare da questo. C’è nella prima lettera a Giovanni (4,17) un’espressione molto bella: nell’amore non c’è timore […] e chi teme non è perfetto nell’amore. Quell’impiegato pauroso e codardo, che ha ricevuto un solo talento, aveva paura del suo “signore”. E la paura è stata la sua perdizione. Perché la paura paralizza, un cristiano pauroso non produce nulla. Il Dio che si predica da non poche cattedre ecclesiastiche è un Dio che mette paura. Insegnare che Dio è un fiscalista è fare il peggior danno ai fedeli. Il Signore non ci ripaga con la stessa moneta. Occhio per occhio… non è la sua morale! I predicatori del tempo di Gesù introducevano spesso, per scuotere gli uditori, immagini drammatiche. L’evangelista Matteo non ci descrive cosa Dio farà alla fine dei tempi (lo sa solo lui!) ma ci ricorda quello che noi dobbiamo fare sulla terra. Occorre dunque ripulire la parabola dalle tinte drammatiche di cui è rivestita, secondo il linguaggio semitico del tempo. Presentare un Dio giudice spietato che condanna alle tenebre, al pianto e allo stridore dei tempi, eternamente, è blasfemo! Questo genere di minacce è tipico di Matteo; solo lui impiega le espressioni gettare fuori nelle tenebre (Mt 8,12 e 23,30) dove c’è pianto e stridore di denti (Mt 13,42; 23,30; 24,51…). Una simile interpretazione smentirebbe tutto il messaggio della parabola che ci vuole presentare un Dio che dona e perdona sempre e comunque.

Buona vita!

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *