BELLONA. RICORDIAMO ‘CENZINO’, VINCENZO NATALE, RINNOVANDONE LA MEMORIA.

 

di Paolo Pozzuoli

VINCENZO NATALE

L’Altissimo, al ‘Quale ha offerto le proprie sofferenze e le ha unite a quelle della Sua Passione’, all’alba afosa di una torrida estate ha chiamato a Sé Cenzino, Vincenzo Natale, pochi giorni dopo il compimento del 71° anno d’età. La ‘morte improvvisa è stata certamente uno scossone’.  Ma, ci consoli la fede e la consapevolezza che è andato ad occupare il posto che gli era stato riservato fin dalla nascita. Troppo stupidi e banali se avessimo detto che Lassù necessitava un autista provetto per raccogliere e trasportare anime vaganti e/o trasferire più in Alto quelle temporaneamente in Purgatorio. Ora, tratteggiare la figura dell’amico di infanzia, non è semplice per i rischi ai quali si va incontro. Messa da parte la commozione, si potrebbe esaltarne le qualità oppure trascurarne qualche pregio. Va comunque rinnovata la memoria perché non vada perduta, resti sempre viva e possa essere tramandata da coloro i quali hanno avuto il privilegio di conoscerlo, amarlo, apprezzarlo. 

Risale all’infanzia il primo ricordo. Nella casa di nonno Achille che portiamo nel nostro cuore, un galantuomo, paterno e buono, saggio e prestigioso, ora occupata da un omonimo inquilino, in quella che è stata la casa degli affetti, dell’amore, dei valori veri che venivano anteposti a qualsiasi interesse, termine abolito dal dizionario di famiglia e per questo forse tutto è stato trafugato da mano scaltra e ladrona, Cenzino era ospite fisso. Portiere in erba davanti alla scrivania (era particolarmente emozionata Franca, primogenita di Cenzino, nei momenti in cui osservava quella scrivania ed ascoltava le ‘imprese’ del papà da piccolo) che, addossata ad una parete del soggiorno, fungeva da porta per l’improvvisato campo di calcio casalingo promosso dall’affettuoso e mai dimenticato zio Raffaele, luminare della medicina, di vasta e profonda cultura, amante dei classici che traduceva senza ricorrere ai vocabolari di latino e greco. Le partite, da interminabili, si interrompevano con l’improvvisa rottura di uno dei vetri della libreria – con zio Raffaele sempre pronto ad assumersi la responsabilità presso la cara ed affettuosa zia Luisa, materna, premurosa, amorevole, che ha riversato tutta se stessa su chi ha avuto il privilegio di vivere in quella casa – e riprendevano molto tempo dopo l’avvenuta risistemazione.

Nell’età dell’adolescenza, anche se era appena un soldo di cacio, cominciò a lavorare: dopo la metà degli anni ’50, bigliettaio sulle autolinee ‘Scialdone’ di  trasporto pubblico. Il berretto d’ordinanza, un po’ abbondante, suggellò l’investitura ufficiale. Da allora, per noi coevi, ricevette la seconda investitura, di ‘Capo’, che gli è rimasta appiccicata addosso. Estremamente abile per non lasciarsi sfuggire dalle mani una incredibile tavoletta-contenitore di biglietti, diversamente colorati e con il prezzo sovrapposto in riferimento al percorso di ogni singolo passeggero e fortemente motivato, svolgeva le sue mansioni con scrupolo e diligenza. Avendo acquistato dimestichezza e padronanza, riteneva superabili gli adempimenti cui era tenuto. Ma venne il giorno in cui fu costretto a subire un sonoro cicchetto. Galeotta la grafia sulla distinta giornaliera di consegna dei biglietti e del danaro incassato, ritenuta ‘poco chiara’ dal prof. Carmine Scialdone. Mortificato per l’accaduto, nonostante severo e rigoroso con se stesso per indole e soprattutto per l’educazione ricevuta, si lasciò andare ad una risposta istintiva ‘se proprio lo volete sapere, la mia calligrafia è leggibilissima’. Che non era dovuta a guasconata e nemmeno a sfrontatezza, non ad irriverenza e nemmeno a mancanza di rispetto. Piuttosto sofferta, figlia di un risentimento per il richiamo considerato immeritato, il rimprovero ingiusto. A ben analizzare, costituiva un’avvisaglia, un anticipo di quella rivoluzione di cui fu uno dei protagonisti, che sancì la fine di buona parte dei servizi pubblici privati nella nostra provincia a favore delle aziende ‘municipalizzate’ che andarono ad insediarsi ed a percorrere l’intero territorio. Seguì la parentesi del servizio militare prestato presso una delle caserme di una nota Città pugliese. Anche qui, tosto e determinato come lo erano i figli nati ed allevati durante e nell’immediato dopo guerra, si affermò facendosi valere per zelo, carattere, personalità. Più che meritato, dunque, il grado di sergente conseguito attraverso un duro corso di formazione e addestramento. Interpretando il nuovo ruolo con fierezza, scrupolo, fervore, diligenza, si imponeva con intransigenza alle reclute ed alla truppa dalle quali pretendeva ordine e disciplina. Fu così che, all’unanimità, acquistò l’ingrato titolo di ‘sergente di ferro’. Una volta congedato, riprese l’attività lavorativa con la nuova qualifica di autista. E l’autobus pronubo  per il suo primo ed unico innamoramento – all’epoca per la vita – della ragazza (Pina Fusco) dolce e riservata che condusse all’altare e reso padre di due splendidi figli ai quali, per l’affetto filiale e nel rispetto della tradizione, furono imposti i nomi dei nonni paterni: Francesca e Giuseppe. La famiglia, dunque, il porto sicuro dove poter amare ed essere amato, godere la gioia e l’affetto di tutti, dopo estenuanti turni di lavoro, il volontariato per offrire un valido contributo al sociale e per attestare la presenza cristiana nella comunità, il volante per amico. Un amico discreto, silenzioso, che lo portava là dove imponeva la tabella di marcia e verso la meta stabilita dall’associazione di volontariato cui aveva aderito. Ma, concludendo ogni servizio, là dove gli dettava il cuore: l’accogliente casa realizzata, regno di quiete e di serenità, aperta a parenti ed amici. Amico sincero, secondo a pochi per umanità e generosità, lavoratore instancabile, marito affettuoso, padre premuroso, suocero delicato per il genero Giovanni Marra e la nuora Nunzia Casuccio, nonno tenero e paziente per i nipotini Romilda, Gaetano e Renato, insostituibile e prezioso punto di riferimento per le sorelle Carmelina, Pinuccia e Teresa, i fratelli Enrico e Roberto e le famiglie che hanno realizzato. Ai familiari tutti che hanno fatto tesoro dei sani principi e dei valori autentici che ha trasmesso e lo porteranno nei loro cuori attestiamo il nostro affetto e la nostra vicinanza. E a te, Cenzino, nella certezza che non sei stato tu ad uscire dalla nostra vita ma noi dalla tua, diciamo semplicemente “arrivederci”.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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