Quell’economia a mano armata-Reporter per la pace Stefano Ferrario
Un plauso a Famiglia cristiana che ha affrontato con coraggio questo complicato e quanto mai discusso argomento. Il nostro caro Amico Reporter per la Pace STEFANO FERRARIO, scomparso prematuramente, (in mattinata odierna si sono celebrate le esequie) si occupava instancabilmente di questi temi “URGENTI”cercando di fare il suo dovere di giornalista: Essere sentinella sul cammino, informare correttamente, diffondendo la verità contro tutte le censure e le menzogne di guerra…”Non si possono servire 2 padroni” ammoniva Gesù Cristo profeta di Pace e di nonviolenza.
In concomitanza con il Rapporto annuale del Sipri, che fa il punto del settore Difesa nel mondo, ecco un dossier della Campagna Sbilanciamoci! che analizza le spese militari
Quell’economia a mano armata
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In concomitanza con il Rapporto annuale del Sipri, che fa il punto del settore Difesa nel mondo, ecco un dossier della Campagna Sbilanciamoci! che analizza le spese militari.
07/06/2012
Si tratta di un giro d’affari immenso. In tutto il mondo, nel 2011 i Governi hanno speso circa 1.740 miliardi di dollari per acquistare armi: lo scrive nel suo Rapporto annuale il Sipri, lo Stockholm international peace research institute, l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma.
Nonostante le gravissimi difficoltà economiche che il pianeta sta vivendo, lo scorso anno la spesa militare globale è aumentata ancora, registrando un incremento dello 0,3% in termini reali rispetto all’anno precedente. Se nel 2010 politici e generali avevano speso 1.630 miliardi di dollari, nel 2011 hanno stanziato 1.740 miliardi. Nel 2011 le diminuzioni registrate negli Usa, nei Paesi dell’Unione europea, in America Latina e in India sono state compensate da forti impennate dei budget militari in Russia (+9,3%) e in Cina (+6,7%). Il totale delle spse militari, 1.740 miliardi di dollari, rappresenta una cifra difficile perfino da immaginare. Per avere un’idea basta pensare che, riducendola del 10%, sarebbe possibile salvare la Grecia dal crack finanziario. Sempre il Sipri annota che «nonostante la crisi finanziaria del 2008 e la successiva recessione globale, i produttori e le imprese che forniscono servizi militari hanno continuato a incrementare le vendite di armi».
E’ così. In tempi di crisi economica si taglia su tutto, dalle pensioni all’istruzione, dalla sanità ai servizi sociali, ma le spese militari, sia pure sforbiciate qua e là nel mondo, nella loro sostanza non vengono messe in discussione. In certa misura accade anche in Italia. Il nostro bilancio della Difesa ha previsto per il 2012 uno stanziamento di 19.895 milioni di euro (inclusa la quarta Forza armata, i Carabinieri), spesa cui è necessario aggiungere alcune voci fuori bilancio, cioè 1,4 miliardi per le missioni all’estero e altri 1,7 miliardi per sistemi d’arma finanziati dal ministero dello Sviluppo Economico. Sommando queste cifre si arriva a un totale di circa 23 miliardi di euro.
Lo rivela il rapporto “Economia a mano armata, Libro bianco sulle spese militari 2012”, pubblicato da Sbilanciamoci!, campagna che sostiene un’economia di giustizia e un diverso modello di sviluppo. Il testo è stato presentato a Roma, in concomitanza con l’uscita del Rapporto 2012 del Sipri. Per le armi si spende troppo e male, denunciano i referenti della campagna, e a pagare il prezzo di questa situazione sono le politiche sociali e ambientali, il welfare, la cooperazione internazionale, il servizio civile e tutti quegli interventi che potrebbero aiutare a uscire più rapidamente dalla crisi.
Il “Libro bianco sulle spese militari” è una riflessione collettiva che affronta, con grande ricchezza di dati, questioni spinose della nostra politica contemporanea, zone d’ombra e interrogativi. Si parla di armi made in Italy vendute in tutto il mondo (“aree calde” comprese) e di spese militari cresciute enormemente nel corso dei decenni, si ripercorre la vicenda degli ormai famosi (ma anche alquanto discussi) cacciabombardieri d’attacco F-35. Non solo: nel testo trovano spazio il dibattito sulle missioni italiane all’estero, il delicato problema della riconversione dell’industria militare, ma anche il ruolo del servizio civile, minacciato da una sistematica politica di tagli.
Al dossier hanno contribuito voci storiche impegnate per la pace e il disarmo: ci sono Giulio Marcon, portavoce della campagna Sbilanciamoci!, Massimo Paolicelli, presidente dell’Associazione obiettori nonviolenti, e Francesco Vignarca, coordinatore della Rete per il Disarmo; ci sono studiosi, specialisti e opinionisti del calibro di Giorgio Beretta, Vincenzo Comito, Leopoldo Nascia, Mario Pianta, Sergio Andreis. E ancora Giuliano Battiston, giornalista, Gianni Alioti, ufficio internazionale Fim-Cisl, e Licio Palazzini, presidente Arci Servizio Civile. Tutti, ciascuno dal proprio punto di vista, formulano «proposte concrete su dove e quanto tagliare nel bilancio della difesa e su come reinvestirlo in politiche più utili alla comunità ».
A leggere l’elenco pubblicato nel 2011 dei “programmi pluriennali di sistemi d’arma”, è inevitabile porsi qualche domanda. All’Italia, per difendersi, servono davvero arsenali stracolmi, da qui al 2018 riempiti via via con un decine e decine di caccia intercettori Eurofighter, di decine e decine di cacciabaombardieri Joint Strike Fighter (sono i “famosi” F-35, ridotti a “soli” 90 esemplari dopo le pressioni della società civile; il progetto iniziale ne prevedeva 131), 100 elicotteri di trasporto tattico, una nuova portaerei (la Cavour, che già solca il mare), due fregate antiaeree, dieci fregate europee multi-missione, 4 sommergibili, 249 veicoli blindati medi.Â
«Queste informazioni sono “vecchie” di oltre un anno», dichiara Massimo Paolicelli, «nel frattempo il ministro ha confermato tagli nelle commesse degli Eurofighter, scesi da 121 a 90 unità , e annunciato il ridimensionamento degli F-35 (come già detto da 131 a 90 velivoli, ndr.); per il resto, però, nessuno ha fornito ulteriori informazioni precise e vincolanti, salvo generiche promesse di sforbiciare o dilazionare i programmi. In ogni caso, sia che si arrivi ad acquistare tutto ciò che si era detto di voler comprare, sia che lo shopping risulti in parte ridotto, questi investimenti nulla hanno a che vedere con un’idea di “difesa”, coerente con l’articolo 11 (l’Italia ripudia la guerra) e l’articolo 52 (ruolo nazionale e democratico delle Forze armate) della nostra Costituzione. Il mandato è di essere in grado di reagire a eventuali attacchi portati contro la nostra Patria, non quello di essere attrezzati a far la guerra lontani da casa, difendendo i nostri interessi economici in giro per il mondo».
Ma il fatto è che, secondo Giuliano Battiston, c’è uno squilibrio nella gestione delle risorse: troppo denaro per le operazioni militari, troppo poco per progetti di ricostruzione e di aiuto (quest’anno sono previsti per la cooperazione 78,2 milioni, un po’ più dei 67,9 milioni del 2011, ma molti meno dei 118,3 milioni stanziati nel 2010). «Il caso dell’Afghanistan – scrive il giornalista – è paradigmatico delle scelte compiute dall’Italia, che continua a finanziare robustamente le operazioni di guerra, marginalizzando invece le attività in ambito civile, di cui il Paese centroasiatico avrebbe gran bisogno, e il più generale processo di ricostruzione delle infrastrutture e del consolidamento del quadro istituzionale e giuridico afghano, ancora inefficiente e compromesso da un livello di corruzione tra i più alti al mondo».Â
Di politica militare italiana si occupa anche Giorgio Beretta, nel suo contributo dedicato al commercio internazionale di armi. «L’ampia consistenza di autorizzazioni all’esportazione di armamenti verso Paesi del Sud del mondo – scrive lo studioso – dovrebbe indurre, a oltre vent’anni dall’entrata in vigore della legge 185/1990, a un’attenta riflessione sull’effettiva applicazione della normativa. (…) Appare oggi più che mai urgente – prosegue Beretta – riaprire il confronto e il dibattito anche all’interno delle diverse componenti della società civile (…) per promuovere percorsi comuni e specifiche azioni verso tutti i soggetti che hanno un ruolo nel finanziamento, nella produzione e nel commercio di armi, così da esercitare un effettivo controllo sulle esportazioni di armamenti, affinché vengano impediti i trasferimenti di tecnologia e attrezzature militari che possono essere utilizzate per la repressione interna o l’aggressione internazionale o contribuire all’instabilità regionale».
Le 130 pagine del dossier “Economia a mano armata” assumono un valore particolare se consideriamo che, proprio per mancanza di fondi, la campagna Sbilanciamoci!, cui aderiscono anche molte realtà cattoliche, si trova in pericolo. Senza le risorse necessarie sarà quasi impossibile proseguire questo prezioso lavoro di ricerca e documentazione, utile punto di riferimento per singoli cittadini e organizzazioni. Pur consapevoli della situazione difficile, i redattori non si limitano a una denuncia sociale, ma, in linea con lo spirito della campagna, reagiscono con le proposte.
In appendice al “Libro bianco”, infatti, sono riportati due testi fondamentali: il documento “Disarmare l’economia, costruire la pace” e l’appello “Taglia le ali alle armi”. Riassunte in poche pagine si trovano molte delle proposte formulate in questi anni da Sbilanciamoci!: ridurre le spese per forze armate e programmi d’arma, rinunciare ai militari nelle città , cancellare il programma “Vivi le forze armate. Militare per tre settimane”, adibire a uso sociale le caserme dismesse, riconvertire l’industria bellica, lavorare per un rapido ritiro dall’Afghanistan, dare nuovo slancio a cooperazione e servizio civile, istituire dei corpi civili di pace. E poi un appello particolarmente accorato: «chiediamo al Governo di non procedere all’acquisto dei cacciabombardieri F-35 e destinare i fondi risparmiati alla garanzia dei diritti dei più deboli e allo sviluppo del Paese». Â
Il rapporto completo è disponibile sul sito www.sbilanciamoci.org.
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