Analfabetismo digitale

 

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Se ne parla da tanto, è quasi un tormentone, ma il problema non viene mai analizzato con metodo.

Chiariamo subito che per analfabetismo digitale non s’intende l’analfabetismo informatico cioè l’incapacità di utilizzo dell’informatica o della telematica attraverso i vari strumenti messi a disposizione dalla tecnologia (computer, smartphone o tablet) bensì:

-       la mancanza di competenze tecniche e conoscenze normative sufficienti a permettere al soggetto di porsi con autonomo spirito critico e piena consapevolezza, comprese le conseguenze, di ciò che sta maneggiando o dell’azione che sta conducendo compresa la capacità di fronteggiare qualsiasi situazione critica che s’incontrerà sempre più frequentemente sia nella vita privata che in quella professionale;

-       l’incapacità di utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie di informazione e comunicazione (TIC) per  il lavoro, il tempo libero e la comunicazione, per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet.

E’ risaputo che siamo energici twittatori, postatori, quotidiani interlocutori di ADE, INPS e INAIL, assidui collocatori di documenti su Dropbox ma non conosciamo il risvolto giuridico, anche penale, di ciò che abbiamo appena eseguito, non ci poniamo domande sul rispetto della sicurezza e della privacy, non sappiamo dove e come conservare le ricevute di una PEC, ignoriamo i concetti fondamentali di autenticità, interoperabilità, immodificabilità, sottoscriviamo senza accorgerci d’averlo appena fatto o siamo convinti d’aver apposto una firma digitale ed invece abbiamo solo apposto l’immagine di una nostra firma autografa, non ci preoccupiamo dove dropbox detiene i documenti e con quali garanzie di sicurezza e privacy e nemmeno se il collegamento con cui li trasmettiamo è protetto; emettiamo documenti in formato Pdf dai nostri gestionali continuando a conservarli nel nostro insicuro hardware ignari delle regole contenute nella normativa (CAD & C.) sui corretti processi di validazione giuridica e fiscale di tali documenti, non usiamo APP per il lavoro e la professione; e tutto ciò non è che la minima parte dei peccati digitali che quotidianamente commettiamo.     

Alfabetismo digitale  inteso quindi come possesso delle competenze digitali di base, necessarie per una piena cittadinanza digitale nonché efficace coinvolgimento nella digital economy.

Nel mondo digitale la semplice capacità di utilizzare un dispositivo (cellulare, smartphone, computer, ..) si situa al livello dell’alfabetizzazione informatica, comparabile con l’alfabetizzazione di base (“capacità di leggere e scrivere un breve componimento”). Nella società della conoscenza del XXI secolo, questa capacità è certamente necessaria, ma non sufficiente.

L’Istat ha segmentato la popolazione italiana rispetto a quattro livelli di competenze sul digitale:

  1. chi non ha mai utilizzato Internet (analfabeti digitali totali) 37% nella popolazione 6-75 anni;
  2. chi utilizza Internet sporadicamente (es. non negli ultimi 3 mesi) 13% sulla popolazione 6-75;
  3. chi ha utilizzato Internet negli ultimi 3 mesi ma non è in grado di utilizzare i servizi più comuni su Internet (interazione con le pubbliche amministrazioni, home banking, pagamenti elettronici) e quindi non con un approccio attivo (possiamo chiamarli “analfabeti digitali funzionali”) 24% della popolazione 6-75 anni;
  4. chi utilizza Internet anche per i servizi più comuni (che nel framework europeo DIGICOMP corrisponde ad un livello almeno minimo su tutte le dimensioni della competenza – informazione, comunicazione, creazione di contenuti, sicurezza, problem-solving) 26% della popolazione 6-75 (percentuale che sale a un terzo della popolazione 14-75).

La dimensione dell’analfabetismo digitale da contrastare (analfabeti totali più gli analfabeti funzionali) è quindi di gran lunga più elevata di quella spesso diffusa dai rapporti (siamo a circa il 75% della popolazione 6-74 e 66% della popolazione 14-75), e quindi il fenomeno da affrontare è molto complesso.

Sintetizzando, emergono come cause principali dell’attuale condizione di analfabetismo digitale:

  • la mancanza delle condizioni strutturali necessarie;
  • l’analfabetismo funzionale e comunque la mancanza di una cultura di base, figlia dell’assenza di una politica per lo sviluppo dell’educazione;
  • la mancanza di motivazioni  all’utilizzo di Internet (“non lo uso perché non mi serve”) o dei servizi (“uso Internet ma non l’home banking perché faccio pochi movimenti”). 

Come superare queste mancanze? Possiamo provare a dare alcune risposte elencando i fattori di ostacolo principali:

  • gli interessi economici contrari, che riguardano diverse aree, (vedi “I Nemici della rete”) dagli operatori telefonici che vogliono rallentare la spinta agli investimenti sulla banda larga (senza la certezza di un ritorno a breve) per sfruttare al meglio le infrastrutture esistenti, agli editori, non ancora in grado di attuare un modello di business attraverso la rete,  agli operatori del mercato televisivo, che puntano a rallentare lo sviluppo della rete per salvaguardare il business attuale, agli intermediari di servizi, che poggiano il loro business sulla presenza di persone non in grado di accedere direttamente ai servizi online, agli operatori di audiovisivi, che anche sull’inadeguatezza di banda poggiano la speranza di limitare i download.
  • il blocco esercitato della classe dirigente (economica, sociale, politica), che, in gran parte popolata di analfabeti digitali, punta a resistere ad un cambiamento che potrebbe travolgere gli equilibri e che comunque rischierebbe di portare ad una situazione che la classe attuale non sarebbe in grado di gestire. Classe dirigente che, nel suo analfabetismo, enfatizza il timore di questo “altro” sconosciuto, di cui non comprende le regole e le dinamiche, e quindi reagisce con ogni sorta di anatema, scudo, esorcismo;
  • la disabitudine generalizzata nel nostro Paese alla gestione del cambiamento e alla progettazione di medio-lungo termine,  alla visione del particolare e non dell’interesse generale, che ha portato in questi anni all’abbandono di splendide opportunità industriali (vedi il caso dell’elettronica Olivetti) perché visionarie e rivoluzionarie e non pragmatiche e rassicuranti. Questo ha prodotto di fatto la mancanza di una spinta programmatica sia sul fronte delle infrastrutture (per cui ancora non è presente un piano di diffusione della banda ultralarga) sia sul fronte generale del digitale nell’economia (es. non c’è un piano per lo sviluppo dell’e-commerce) e nella società (es. è ancora in fase di impostazione il programma nazionale per lo sviluppo delle competenze digitali nella popolazione);
  • la prevalenza della cultura umanistica su quella scientifica e tecnologica, che ha relegato e attualmente relega gli operatori della seconda in un cono d’ombra (economico, di visibilità, di potere) e che continua a relegare la visione e la progettazione dello sviluppo dei servizi sul web in un ambito prettamente tecnico-informatico e non ampiamente progettuale, con il risultato che i servizi oggi disponibili seguono spesso procedure non citizen-oriented e anche dal punto di vista della fruibilità ricalcano la logica di chi li realizza e non di chi dovrebbe fruirne;
  • le caratteristiche del mercato del lavoro, che Laura Sartori declina in questi termini ”Il nostro mercato del lavoro ha caratteristiche particolari relative alla concentrazione di piccole (e medie) imprese. Anche prima di internet,  le ricerche sui livelli d’istruzione avevano sottolineato come ci fosse una scarsa domanda di lavoratori qualificati dovuta proprio alla ticipità della piccola impresa. Al contrario di quanto accade in contesti dove prevalgono le grandi (ma anche medie imprese) dove si richiedono titoli di studio formali e più elevate capacità, le piccole imprese non “spingono” la propria domanda verso figure professionali qualificate. Questo esempio calza a pennello anche quando si parla di Internet e di competenze digitali”. Infatti, da un confronto europeo su rilevazioni Eurostat (2012) emerge chiaramente come le imprese italiane (10-49 addetti) non richiedano specifiche competenze relative a Internet. Ad esempio, nel 2011 solo il 7% delle imprese ha richiesto esplicitamente ai suoi dipendenti di acquisire competenze digitali attraverso corsi (nel 2005 lo ha però fatto il 9% delle aziende). Se poi guardiamo ai social media, si nota come solo il 19 per delle aziende usa i social media per lo sviluppo e la promozione della propria immagine (contro il 22 della Spagna, il 27 della Grecia, il 32 dell’Inghilterra e il 36% di Irlanda e Olanda). D’altro canto, solo il 4% delle imprese italiane ricorre ai social media per il dialogo e la collaborazione con altre aziende dello stesso settore e con le istituzioni pubbliche (contro l’8% della Spagna, il 13% dell’Inghilterra e il 21% dell’Olanda.

Naturalmente una situazione così composita necessita di un sistema di interventi che prenda in considerazione tutte le diverse cause, agendo però secondo un doppio livello top-down e bottom-up che valorizzi e stimoli la proattività della popolazione, dove top-down significa che l’iniziativa viene sviluppata da parte delle istituzioni centrali per essere co-progettata in modo multistakeholder e però guidata centralmente, e bottom-up vede un ruolo essenzialmente di piattaforma, di facilitazione e di coordinamento da parte delle istituzioni rispetto allo sviluppo di iniziative territoriali.

È su questi principi che si stanno indirizzando i lavori del Piano Nazionale per la cultura, la formazione e le competenze digitali  (promosso dall’Agenzia per l’Italia Digitale) rispetto alle competenze di base e alla cittadinanza digitale,  facendo tesoro delle esperienze di organizzazioni no-profit e delle Regioni che in questi mesi stanno collaborando all’elaborazione del Piano.  Con la convinzione che il tema della cultura, dell’istruzione, delle competenze digitali debba diventare rapidamente priorità fondamentale dell’azione politica italiana. Sulla base di una visione di futuro della nostra società.

Stefano Zoffoli

 

 

 
                 
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Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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